Islam e Violenza (Parte I) – Risposta a Donadel
Islam e Violenza: perché non basta il collegamento tra religione e violenza per capire il fenomeno (una risposta a Luca Donadel)
Autore: Esservion
Islam e Violenza: capire il fenomeno
A seguito degli ultimi efferati omicidi avvenuti a Parigi e Nizza da parte di fondamentalisti islamici, il blogger Luca Donadel ha così commentato sul suo profilo Facebook.
Dopodiché ha ripubblicato un suo video del 2016 in cui indica perché secondo lui l’Islam è una religione intrisa di violenza, ed il cui sottotitolo è «Il fine di questo video è mettere in discussione idee in modo da promuovere il dibattito e stimolare una maggiore comprensione. Non vuole e non deve essere inteso come un incitamento all’odio».
Proprio per questo ho deciso di elaborare una risposta, non tanto sui contenuti, ma al fine di allargare il discorso e di contestualizzarlo. L’unica affermazione che mi sento di criticare è che «al giorno d’oggi l’Islam [sia] l’unica religione al mondo che annovera dei fanatici al suo interno».
Il fanatismo religioso è presente anche ad esempio all’interno dei movimenti anti-abortisti (https://en.wikipedia.org/wiki/Anti-abortion_violence) o di altri casi di terrorismo che vuole rifarsi al Cristianesimo (https://en.wikipedia.org/wiki/Christian_terrorism#Anti-minority_violence).
Un approccio meccanico
Senza arrivare a chiamare, in chiave marxista, la religione come mera sovrastruttura dei rapporti di forza economici all’interno di una società, è importare rimarcare come essa sia uno dei tanti aspetti della società che si influenzano reciprocamente.
Analizzarla separatamente e collegarla ad atti violenti, per cui un’azione (fanatismo) ha causato una reazione (terrorismo), è semplicistico e insufficiente a comprendere il fenomeno nel suo complesso.
Parafrasando Giampietro Mazzoleni [2004], ogni approccio meccanico che pretende artificiosamente di far risalire un effetto comportamentale a un preciso stimolo, invece che a una visione di insieme dei processi, è una fallacia metodologica[1].
Prendendo invece spunto da Dennis McQuail [1994], il comportamento di un individuo è la risultante probabile di un insieme di stimoli, in cui giocano un ruolo cruciale di filtro e riformulazione di tali stimoli le caratteristiche psicosociali dell’individuo, generalmente in un quadro temporale di medio-lungo periodo.
Il contributo della religione
È pertanto molto difficile soppesare l’effettivo contributo della religione sul comportamento e improbabile che sia l’unica causa necessaria o sufficiente.
Dall’insegnamento della dottrina religiosa prende avvio il processo di influenza, che passando per una serie di fattori cognitivi, affettivi, ambientali e culturali attiva eventuali scelte di comportamento[2].
La visione meccanica (e apocalittica) delle influenze sociali, che indica la società come portata a comportamenti irrazionali e facilmente manipolabili, tende a considerare gli effetti dei messaggi fondamentalisti come diretti sul modo di pensare della gente e i comportamenti di questa conseguentemente prevedibili, a prescindere dalle caratteristiche socio-individuali.
Il capitale sociale
Ciò premesso, se con il fondamentalismo religioso il problema di fondo è la violenza bisogna innanzi tutto chiedersi perché una qualsiasi società è violenta. Chiaramente non esiste una risposta univoca in quanto mille fattori possono aver giocato un ruolo.
Un concetto che può fare da cappello all’insieme di questi fattori è ad esempio quello di capitale sociale, vale a dire le reti di relazioni tra le persone che vivono in una certa società, permettendole di funzionare efficacemente.
Alcuni studi[3] hanno evidenziato un rapporto di proporzionalità inversa tra il livello di capitale sociale strutturale (relativo all’organizzazione di una società), capitale sociale cognitivo (fiducia e coesione tra le persone) con il livello di violenza.
Mutua influenza
Tali aspetti non sono uno causa dell’altro ma si influenzano vicendevolmente. Questo significa che in una società dai legami sociali deboli e dal basso livello di istruzione e organizzazione sarà più facile che si verifichino episodi di violenza.
Per questo motivo è più facile che in tali società la religione acquisisca un peso maggiore in quanto, facendo da collante, permette di aumentare il livello di capitale sociale.
Uno dei primi a parlarne fu il sociologo francese ante litteram Alexis de Tocqueville nella sua opera «La democrazia in America» del 1832, in cui, analizzando la società statunitense del tempo, notò come i cittadini cercavano coesione all’interno dell’associazionismo religioso o settario.
Analogamente oggi associazioni e sette religiose si propongono con successo in molte parti del mondo socialmente, culturalmente ed economicamente arretrate.
Oltre a dare un sostentamento ai più deboli, l’associazionismo religioso spesso abitua i cittadini a stare insieme, poiché solitamente tutti partecipano alla vita dell’associazione con la stessa posizione di partenza, senza differenze di censo.
Islam e violenza: lo scontro di civiltà
Se proiettiamo quanto sopra sulle comunità islamiche che vivono nei Paesi occidentali, o più in generale alla percezione delle comunità islamiche da parte dell’Occidente, vediamo come quest’ultimo ha spesso sdoganato ed utilizzato in modo strumentale teorie e analisi della realtà apparse su riviste “intellettuali”:
formule accattivanti che riscuotono un grosso successo a livello mediatico, permeandone il linguaggio, e trasmettono in maniera indiretta e trasversale un sentimento diffuso.
Politici e leader d’opinione, perlopiù tramite l’uso di una preterizione, riescono a sfruttare le suddette teorie a loro vantaggio. La preterizione consiste nel fingere di voler tacere ciò che in realtà poi si dice.
Allo stesso modo se una teoria, che fa ad esempio riferimento allo scontro di civiltà, viene pubblicamente negata, in realtà si agirà in modo tale che essa sia valida, trasmettendo il concetto all’immaginario collettivo, che si confronterà con tale teoria di facile fruizione, e subirà questo modellamento di visione del mondo.
Effetto verità
Perciò se anche pochi individui, ma potenti (politicamente e/o mediaticamente), agiscono come se credessero a un modello che pure potrebbe non avere alcuna rispondenza nella realtà, avremo un effetto verità, una profezia che prima era ragionevolmente assurda, ma che invece si auto-avvera.
Nella fattispecie risentiranno dello schema artificioso, e in un qual modo lo condivideranno, anche coloro che lo subiscono materialmente (ad es. i musulmani).
Nello specifico Samuel Huntington, autore de «Lo scontro delle civiltà» [1996], divide approssimativamente il mondo in macro-aree culturali.
Preso questo schema, la sua idea è che dalla caduta di comunismo e fascismo l’elemento attorno a cui si cristallizzerà l’identità non sarebbe più ideologico ma culturale, e culture essenzialmente diverse e incompatibili non potranno che incorrere in conflitti[4].
Se nella concezione marxista questi erano di classe, dunque per l’acquisizione delle risorse e dei mezzi di produzione, ora il paradigma che apparirebbe dominante è quello culturalista.
Del resto seguito anche da coloro che si dichiarano multiculturalisti, e si proclamano contro tale scontro.
Sottolineiamo in questa direzione che l’assunzione di un’identità culturale avviene più facilmente in contesti di sradicamento, poiché il senso di appartenenza si sviluppa in riferimento a un posto dove non si è e dove si vorrebbe andare (ad es. una terra promessa).
Nel posto dove invece si è, in presenza di stigmatizzazione ed isolamento si creano reti di solidarietà unite da un legame che può farsi mistico e generare identità “ossessive”.
Laicismo vs fondamentalismo nei Paesi islamici
Considerato che Donadel indica che nei Paesi musulmani la religione ha mediamente un peso maggiore rispetto ai Paesi cristiani, e che questo può contribuire alla violenza di matrice religiosa, è legittimo domandarsi se siano presenti invece dinamiche tendenti alla secolarizzazione anche laddove l’Islam è predominante.
Innanzi tutto è doveroso rimarcare che la situazione a riguardo non è cristallizzata ma fluida. Ogni Paese islamico ha le sue peculiarità e le sue dinamiche storiche.
Proprio per questo è interessante notare come in particolare nel XX secolo in molti Paesi islamici ci siano state spinte verso un maggiore laicismo della società, e come nei decenni successivi tali spinte siano state smorzate anche a causa di influenze esterne.
Ataturk
Uno dei primi ad andare in questa direzione fu Mustafa Kemal “Ataturk” (padre dei turchi), che con la nascita della repubblica turca, voleva spingere verso una modernizzazione del Paese in nome di un nazionalismo laico.
Abolì le confraternite religiose, adottò il calendario occidentale e l’alfabeto latino, vietò la poligamia e introdusse il divorzio e il diritto di voto alle donne.
In generale Ataturk puntava a una netta separazione fra il potere temporale e quello religioso.
Mossadeq
Altro caso degno di nota è quello di Mohammad Mossadeq in Iran. Anche la sua visione politica mirava ad un maggiore secolarizzazione e modernizzazione del Paese.
Ma la riforma concreta più importante fu la nazionalizzazione della compagnia nazionale petrolifera, una misura sostanzialmente di stampo socialista che di fatto portò al colpo di Stato orchestrato dagli anglo-americani e riportò al potere il re, a sua volta successivamente detronizzato dal clero.
Il partito Baath e al Fatah
Per finire questa carrellata di esempi emblematico è il caso del partito Baath, un movimento nazionalista, panarabista e secolarista di simpatie socialiste che ebbe grande peso in Medioriente nel periodo della guerra fredda.
Sulla stessa scia il partito al Fatah di Yasser Arafat[5] che mirava alla liberazione della Palestina dalla dominazione israeliana.
Per una politica di divide et impera nel 1977 il primo ministro Israeliano Menachem Begin appoggiò[6] più o meno direttamente la nascita del movimento fondamentalista Al Mujamma Al Islam, da cui nacque Hamas, per indebolire internamente Arafat.
Vai alla Parte II per il seguito dell’analisi su Islam e Violenza.
[1] G. Mazzoleni, La comunicazione politica, 2004, Il Mulino.
[2] D. McQuail, I media in democrazia. Comunicazioni di massa e interesse pubblico, 1995, Il Mulino, ed.or. 1994.
[3] Si vedano ad esempio https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1359178914001098; https://link.springer.com/article/10.1007/s11205-019-02264-z;
[4] Nella fattispecie Huntington arriva a dire che « Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale». Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.
[5] Altri esponenti di spicco che si rifacevano più o meno direttamente al partito Baathista furono tra gli altri Saddam, Nasser e la famiglia Assad,
[6] http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=5735&Itemid=100021