Cosa non va con i Social Network (Terza Parte)

Cosa non va con i Social Network

Terza parte della disamina su cosa non va con i social network.

Autore: Esservion.

Leggi anche: Cosa non va con i Social Network (Prima Parte) e Cosa non va con i Social Network (Seconda Parte).

Cosa non va con i social network: il pubblico

Contrariamente ai mass media tradizionali, nei social non si può più parlare di pubblico in senso stretto poiché ogni utente può essere contemporaneamente mittente e destinatario di un messaggio.

Questa natura ambivalente del mezzo ha generato una proliferazione comunicativa che di fatto conduce gli utenti a un sovraccarico dell’informazione (information overload), un disturbo per cui l’utente tende ad assorbire una quantità enorme di informazioni senza un particolare filo logico.

Come arma di difesa da questo disturbo il cervello di conseguenza tende ad assorbire tali informazioni in maniera molto superficiale, ragione per cui spesso gli utenti si limitano ad esempio a leggere soltanto i titoli degli articoli: ciò non impedisce loro di commentare comunque.

In sostanza il mezzo condiziona da un lato una lettura superficiale, quasi nulla, dall’altro facilita la possibilità di dare il proprio parere su un tema di cui non si ha in pratica conoscenza alcuna.

Dissonanze e scorciatoie cognitive

Tale proliferazione di informazioni accresce altre due risposte psicologiche del fruitore: la dissonanza cognitiva e la ricerca di scorciatoie cognitive.

La dissonanza cognitiva è una risposta del cervello che avviene quando credenze, nozioni, opinioni esplicitate contemporaneamente nel soggetto in relazione ad un tema si trovano in contrasto funzionale tra loro.

Pertanto nella maggior parte dei casi quando una notizia o un tema non sono conformi al proprio sistema di idee, il cervello tende a ignorarli.

Analogamente il fruitore per alimentare il proprio sistema di idee ricercherà scorciatoie cognitive, una modalità di utilizzo della razionalità limitata attraverso la quale un soggetto si forma un’opinione mettendo insieme elementi diversi.

Nel campo dell’informazione per comodità si tenderà ad acquisire le notizie e le opinioni da un campo relativamente ristretto e selezionato.

Le tifoserie

Questi due processi psicologici trasferiti nell’ambito dei social network generano ad esempio i follower dei relativi influencer.

Il primo tende a fare affidamento sulle notizie e le opinioni che gli comunica il secondo, per cui si può generare un rapporto per certi versi affettivo: il seguace tenderà a fare sue le opinioni del leader d’opinione e analogamente potrà riversare la propria avversione per organizzazioni e personaggi contrapposti alla narrativa dell’influencer.

Si generano così atteggiamenti irrazionali analoghi a quelli delle tifoserie da stadio come il fenomeno degli haters (odiatori) e quello delle shitstorm (lett. tempeste di merda). Tali modalità ostili sono facilitate anche dalla natura del mezzo.

Pur scrivendo la maggior parte degli utenti con il proprio nome e cognome reali, scrivendo da dietro un computer molte persone stranamente si sentono protette e legittimate a insultare, anche pesantemente, un personaggio della “fazione” avversa.

La violenza verbale

Si generano così delle spirali di violenza verbale sostanzialmente prive di contenuti interessanti e che nulla dovrebbero avere a che vedere con un dibattito pubblico/politico.

L’insulto verso la parte avversa non si presenta necessariamente sotto forma di volgarità, ma molto spesso si limita a espressioni e frasi taglienti atte a sminuire le capacità critiche e cognitive del proprio interlocutore.

Va da sé che tali battibecchi sono essenzialmente sterili e non possono portare ad alcunché di costruttivo.

Da comunicazione mediata a comunicazione diretta

Detto questo bisogna osservare che tuttavia alcuni personaggi decisamente osteggiati dal mainstream grazie ai social sono riusciti a scavalcare l’intermediario e comunicare il proprio messaggio al pubblico di riferimento.

Già Obama a partire dalle elezioni presidenziali del 2008, attraverso un uso massiccio di Facebook, riuscì a portare al voto una buona parte dell’elettorato giovane.

Due casi celebri più attuali, e con modalità simili tra loro, sono Donald Trump e Matteo Salvini.

Su Trump

Il primo è riuscito da membro esterno grazie a una campagna spasmodica su Twitter a scavalcare l’establishment del Partito Repubblicano e a sconfiggere il Partito Democratico.

Attività social mai interrotta, a maggior ragione sotto elezioni in cui si è costruito l’immagine di uomo della strada estraneo agli affari sporchi della politica e contro il quale è in atto un tentativo di delegittimazione da parte del cosiddetto Stato Profondo (anche noto come Deep State).

Non mi soffermo sulla validità delle sue affermazioni in quanto andrei fuori tema.

Su Salvini

Analogamente Matteo Salvini, partendo da una percentuale di elettori molto bassa, ha fatto partire un’incessante e studiata campagna social in cui si dipinge anch’esso come uomo della strada e ne parla lo stesso linguaggio.

Al di là del valore dei contenuti comunicati, perlopiù basso, è indubbio che questo passaggio da comunicazione mediata a comunicazione diretta abbia prodotto una sorta di cortocircuito in cui è venuto a mancare il ruolo storico del giornalista, non più in grado di veicolare il clima di opinione come un tempo.

Tale cortocircuito ha evidentemente spaventato gli editori dei media tradizionali ed anche gli stessi proprietari dei social network per cui la guerra dell’informazione non è più limitata agli scambi di insulti fra utenti ma si è allargata dalla “politica virtuale” a quella “reale”.

Conclusione su cosa non va con i Social Network

Socrate, fra gli altri, ci ha insegnato che la qualità di una democrazia è legata alla qualità del dibattito pubblico, che a sua volta è legata alle qualità morali ed intellettuali dei suoi cittadini.

Tuttavia se da un lato l’orizzontalità della comunicazione social ha abbassato il livello del dibattito, dall’altro esso non è tanto legato all’istruzione in sé ma alla qualità della stessa, poiché questa da sola è necessaria ma non sufficiente a sviluppare nel discente né un pensiero critico né le sue qualità morali.

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